Il testo di Kieran Hurley affronta due temi: la disuguaglianza sociale e la responsabilità artistica.
Che responsabilità ha un artista nei confronti delle persone reali di cui racconta la storia?
È una vecchia domanda, ma sempre attuale soprattutto nella società di oggi abituata a consumare storie di vario genere, come in un fastfood: dai gossip dei vip, ai reality per finire con i collegamenti tv in zone difficili, il tutto diretto a tempo di pubblicità da mandare in onda quando il climax è al massimo.
Il gioco intelligente e compassionevole di Kieran Hurley va al cuore della questione. Questa è la storia di Libby, una drammaturga scozzese di mezza età, depressa, di classe media, che supera il blocco dello scrittore appropriandosi della voce di Declan, un giovane della classe operaia, infestato da ansie, povero e con un talento per il disegno. Declan è sottile come un guscio d’uovo, è fragile come un pulcino ed è sempre presente il rischio che la vita lo schiacci in un attimo.
Libby sembra offrirgli la salvezza attraverso l’arte, nutrendo il suo talento artistico per il disegno e attraverso l’opera che lei inizia a scrivere su di lui. Ma l’Autore non si limita a renderla un’ovvia, tragica storia di sfruttamento: in tutto, “Mouthpiece” ricorda esplicitamente al pubblico la struttura e i tempi previsti, e necessari, della narrazione teatrale. Libby si rivolge spesso al pubblico, impartendo piccole lezioni sulle regole della scrittura – dove hai bisogno di conflitto, quando dovrebbe esserci un capovolgimento di fronte.
Quindi, mentre la storia si muove attraverso i suoi inevitabili alti e bassi, siamo preparati per quanto accadrà e diventiamo più circospetti.
“Mouthpiece” è commovente, cupamente esilarante – e ci conduce verso l’appetitoso epilogo che bramiamo – e allo stesso tempo ci chiede in modo intelligente perché vogliamo quel finale…
La vita non ci dà mai finali netti; le persone sono infinitamente più complicate e inaspettate, ci ricorda Hurley.
Maurizio Mario Pepe