Roma
Auditorium Conciliazione
2-3 maggio 2008
Il ponte
“Credo sia giunto il tempo che io vi dica una cosa… E non è facile dirvela… Mi hanno chiamato per costruire quella cosa che forse smetterà di farci essere un’isola… Sì dicono proprio così… Smetteremo di essere un’isola. Ma non è questo che non è facile a dirsi… Pare che per costruire questa cosa, qualcuno debba per forza morire. Sì, morire… Avete capito bene. Li chiamano incidenti che devono accadere… I morti sono sempre la prova che una comunità ha espresso il massimo sacrificio per realizzare ciò che resterà eterno… Ovviamente la colpa di ciò sarà data al destino… E’ sempre colpa del destino quando le cose incomprensibili accadono… Hanno previsto che ci metteremo sei anni a modificare ciò che questa terra è sempre stata: un’isola. Sei anni in cui tante cose accadranno… E porteremo soldi a casa, ci hanno detto… Tanti soldi… E’ strano, ci pagheranno per farci smettere di essere noi stessi: degli isolani… I miei figli, i miei nipoti, e tutti quelli che verranno dopo di loro, non abiteranno più su isola… Ma non è neanche questo che volevo dirvi…”
“Il ponte” è un testo sull’architettura intesa come perenne e coraggiosa sfida dell’uomo che non si lascia soggiogare dalle leggi della natura; l’architettura intesa come una grande interminabile opera che, cominciata nei secoli, prosegue ininterrotta, sottolineando l’ascendere dell’uomo, il dilatarsi della sua spiritualità, della sua intelligenza, della sua umanità non potendo mai esimersi dal centrare il rapporto con le esigenze del contemporaneo.
In questo contesto la messa in opera di un grande ponte diviene la metafora del “progetto” ovvero, il progetto di tutti i progetti dell’uomo, una grande opera immaginifica che simbolicamente è il ricongiungimento di un luogo e un altro impossibili a raggiungersi diversamente.
La drammaturgia prende le mosse e si sviluppa proprio da questa sorta di presunzione “positiva” che anima da sempre l’uomo che va oltre la contingenza e che non rassegnandosi a restare isolato, arriva a sfidare la natura in imprese che sembrano impossibili.
La natura dello spettacolo presuppone che dietro alle motivazioni di messa in scena ci sia una indissolubile necessità: restituire fiducia al cittadino nei confronti delle istituzioni che sono alla base del nostro Stato sociale; ci si chiede quanto nello scambio fisiologico tra Stato e individuo sia indispensabile offrire alla comunità una visione che giustifichi rinunce, sacrifici, fino al rischio di morire.
Il punto di vista della narrazione è quello paradossale a tratti sottilmente ironico di un operaio edile morto durante la ipotetica costruzione del Ponte di Messina, e che già dal suo surreale incipit pone amaramente il punto su una delle questioni più importanti e spesso più trascurate dalla storia e dalla opinione pubblica, riguardo alla costruzione di una cosiddetta “grande opera”.
Qualsiasi grande impresa ingegneristica comporta un grande dispendio di vite umane, le cosiddette “morti bianche“, ogni grande impresa ha il costo di una guerra in termini di perdite: costruire una “grande opera” è come andare in guerra con tutte le conseguenze che comporta.
Il nostro protagonista si chiede incessantemente se ha un “orizzonte”, se ha senso immolarsi per una sfida, aver dato la vita per una impresa così controversa e ci spinge a porci i suoi stessi interrogativi “Qual è il nostro vero orizzonte in questa Italia di inizio millennio?”
Le grandi opere hanno questo potere di incidere profondamente sull’uomo e, nel nostro racconto, attraverso la metafora ci svelano la nostra responsabilità di uomini e ci riuniscono, come un ponte, come un braccio teso tra due cose che non si toccano, alle singole infinite altre responsabilità.