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Quando gli fu chiesto di commentare il disagio di Moscarda, Pirandello rispose: “La realtà, io dico, siamo noi che ce la creiamo: ed è indispensabile che sia così. Ma guai a fermarti in una sola realtà; in essa si finisce per soffocare, per atrofizzarsi, per morire. Bisogna invece, variarla, mutarla continuamente, continuamente mutare e variare la nostra illusione”.
Uno, nessuno e centomila è un romanzo frammentario, che procede per salti temporali e spaziali, che trova la propria coerenza e armonia nel primissimo piano che l’autore fa del proprio protagonista, Vitangelo Moscarda. Un primo piano sempre più ravvicinato, serrato, quasi perturbante e che sembra restituirci i tratti di uno dei soggetti dei quadri di Lucian Freud, in cui il trascorrere della vita ha lasciato il proprio segno. Le pelli sono molli, i volti solcati dal trascorrere del tempo, il corpo consumato, quasi logorato dallo sguardo degli altri. Negli occhi di chi ci osserva risiede il nostro personale inferno, sembra dirci, neanche troppo velatamente, l’usuraio Moscarda. Uno nessuno e centomila, sembra essere più un’avventura mentale che un romanzo come si è abituati ad intenderlo, più un’ipotesi di romanzo che un romanzo vero e proprio; quasi un quaderno di appunti sulle crudeltà dell’esistenza. Un lungo monologo, intervallato da battute di dialogo, riferimenti diretti al lettore e repliche a fittizi, a volte immaginari, interlocutori. Vitangelo Moscarda è una specie di “clown sentimentale”, è un protagonista ingombrante, onnipresente, ossessivo, una specie di filosofo saltimbanco che sa perfettamente alternare la tirata complessa al lazzo, la capriola funambolica alla posa da attore tragico.
Andrea Baracco